23 febbraio 2025 * William De Biasi
Non c’è cancello che tenga, quando la memoria chiama. Quella mattina Grugliasco dormiva sotto un velo di nebbia sottile e io, con la mia macchina fotografica e una strana nostalgia addosso, cercavo qualcosa che non avevo ancora visto ma che sembrava aspettarmi da tempo. Villa Il Maggiordomo si alzava tra i rovi come un fantasma che non vuole svanire, ma nemmeno farsi vedere completamente. Sembrava che la nebbia si fosse radunata lì apposta, come una coperta leggera, per proteggerla dall’oblio.
Non so spiegare perché certi luoghi mi attirino. Forse è quella promessa sottintesa che fanno, quando li guardi da lontano: "Qui, qualcosa è rimasto. Vieni a cercarlo." La villa, risalente al Seicento, un tempo dimora del maggiordomo di Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano, Valeriano Napione, è oggi un guscio vuoto, ma ancora intriso di storie non dette.
Attraverso la vegetazione incolta, scorgo le linee curve della facciata, che richiamano quelle del Palazzo Carignano di Torino. La somiglianza non è casuale: si dice che Napione, affascinato dall'opera di Guarino Guarini, abbia voluto replicarne lo stile nella sua residenza di campagna. Le finestre, incorniciate da lesene spesse, sembrano occhi chiusi su un passato che non vuole più essere visto.
Mi avvicino al portone principale, ormai divelto, e varco la soglia con un misto di timore e reverenza. L'interno è un labirinto di ombre e silenzi. Il salone ellittico, un tempo fulcro delle feste, è ora un'eco di se stesso. La volta barocca, seppur danneggiata, lascia intravedere la maestria degli artigiani che l'hanno realizzata. Le scale, coperte di polvere e detriti, conducono a piani superiori che preferisco non esplorare…ma la curiosità e troppa, decido quindi di salire ogni singolo gradino di quella scala. Ad ogni passo uno scricchiolio ed io, che trattengo il fiato, stringo la mano sul corrimano pronta ad aggrapparsi se il vuoto dinanzi a me dovesse palesarsi. Giunto al piano superiore, dove oso appena, trovo un corridoio con porte spalancate come bocche aperte. Alcune danno su stanze spoglie, altre su vuoti improvvisi: crolli, spazi non più transitabili. Eppure, qualcosa rimane: una targa in porcellana, ancora attaccata a una porta, un gancio da lampadario, sospeso nel nulla. Tracce di un mondo che nessuno ha ancora avuto il coraggio di seppellire.
Ogni stanza racconta una storia di decadenza: muri scrostati, pavimenti sconnessi, infissi marciti. Eppure, tra le crepe e le macerie, si percepisce ancora il respiro della villa, come se aspettasse qualcuno che la riporti in vita. Penso a tutte le persone che l'hanno abitata, alle risate e ai pianti che queste mura hanno ascoltato, ai segreti sussurrati nelle notti d'inverno.
Esco nel giardino, o meglio, in ciò che ne resta. Il parco, un tempo curato, è ora un intrico di erbacce e alberi cresciuti senza ordine. Mi fermo davanti a un albero spezzato dal tempo. Mi sembra un’immagine speculare alla villa stessa: una bellezza infranta, ma ostinatamente in piedi. Non c’è più ordine, lì. Gli alberi crescono secondo la loro volontà. E in mezzo, seminascosta, la piccola cappella barocca. Penso a quanto sarebbe importante preservare questo luogo, non solo per la sua bellezza architettonica ed i suoi affreschi coperti dalla polvere e dal tempo, ma per la memoria collettiva che rappresenta.
Prima di andarmene, mi volto. Sempre mi volto, prima di lasciare un luogo abbandonato. Mi sembra un saluto dovuto, una forma di rispetto. Questa volta, però, è diverso. Mi pare di sentire una voce, non un suono, ma un’eco dentro, mi sembra di sentire un sussurro portato dal vento: "Non dimenticarmi." E io prometto, in silenzio, di non farlo.
Villa Il Maggiordomo oggi è dimenticata dai più. Eppure, continua a esistere. Come un libro chiuso sul comodino della storia, in attesa che qualcuno lo apra di nuovo. Io l’ho aperto per qualche ora, e ne porto con me l’eco.
Chissà se Valeriano, il maggiordomo, si aggira ancora tra quelle mura. Forse dorme. Forse aspetta. Forse, semplicemente, ascolta.
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