23 febbraio 2025 * William De Biasi
Non so esattamente cosa mi abbia portato fin qui. Forse il bisogno di silenzio, forse il desiderio di sentire ancora qualcosa in un mondo che ha dimenticato come si ascolta. Sta di fatto che, quel giorno, mi ritrovai davanti a una piccola costruzione in rovina, appena nascosta da un sottile velo di nebbia e da alberi che sembravano più guardiani che testimoni.
All’ingresso, il legno della porta era gonfio d’umidità e scricchiolava sotto le dita come se stesse ancora tentando di opporsi. Entrai, e la sensazione fu immediata: straniante. Non solo per il tempo che sembrava essersi fermato, ma per l’architettura stessa del luogo. Una scuola, probabilmente. Minuscola. Forse solo un’aula, un paio di stanze e un giardino che ora era poco più di un intrico di erbacce e foglie marcite.
Eppure, al centro... un teatro.
Sì, proprio un teatro. Una piccola sala incassata nel cuore della struttura. Una scelta illogica, o forse geniale. In fondo, cos'è la scuola se non un palco in cui i bambini imparano a recitare la vita? Ma qui tutto aveva un che di dissonante, come se l’intento originario fosse andato perduto, lasciando solo frammenti, apparenze, fantasmi.
Entrando nella sala centrale, fui colto da un silenzio spesso, quasi tangibile. L'aria era ferma, come trattenuta da qualcosa di non detto. I banchi, disposti con una simmetria quasi ossessiva, sembravano messi lì da una mano invisibile che aveva tentato, forse invano, di riportare ordine nel caos. Le sedie erano ancora al loro posto, alcune capovolte, altre inclinate, come se fossero state lasciate in fretta, in un addio improvviso.
E al centro, sul banco principale, c’era lei: una scacchiera.
Nessuna scatola, nessuna copertura, solo la scacchiera, scoperta, con alcuni pezzi ancora disposti come se la partita si fosse appena interrotta. Il re nero era rovesciato, il bianco in piedi, isolato. I pedoni immobili, muti, in attesa di una mossa che non sarebbe mai arrivata. Mi avvicinai in silenzio, sfiorando un cavallo con le dita. Era freddo. Non di quel freddo da materia, ma di quello che appartiene alle cose dimenticate.
In quel momento, la sala mi parve davvero un teatro: una scena congelata nel tempo, dove ogni oggetto era un attore rimasto solo sul palco. I libri aperti, la scacchiera abbandonata, persino le ombre avevano una posizione precisa, come fossero comparse di uno spettacolo che non avrebbe più avuto spettatori.
Sul palco, ancora visibile nonostante la polvere, c’era una tenda scolorita. Appena scostata. Dietro, solo buio. Una parte di me temeva di avvicinarsi, come se potessi davvero vedere
ancora qualcuno lì, in attesa della sua battuta. E invece nulla. Solo silenzio, e l’eco lontana di risate che forse non sono mai esistite.
Qualcuno aveva lasciato dei libri aperti sui banchi. Non erano gettati a caso: sembrava quasi che ciascuno fosse stato aperto in un punto preciso, come se un lettore invisibile li stesse ancora consultando. Le pagine erano increspate dal tempo, ma ancora leggibili. Uno parlava di favole, un altro di geografia. Mi fermai su una frase evidenziata: “Tutti i luoghi sono vicini se ci portano a casa.” Mi fece male, quella frase.
Perché questo posto, pur non essendo mio, mi dava una strana sensazione di appartenenza. Come se avessi vissuto qui in un’altra vita, o come se qualcuno che avevo amato ci avesse lasciato un frammento della propria anima.
La luce filtrava da una grande finestra laterale, infranta ma ancora capace di riflettere il sole del tardo pomeriggio. I raggi illuminavano particelle di polvere in sospensione, creando colonne luminose che sembravano puntare gli oggetti rimasti, come a volerli mostrare, come in una scena sacra. Una cartina geografica era appesa ancora a un muro, con l’Italia piegata al centro, quasi spezzata. Qualche disegno infantile sbiadito era ancora incollato agli angoli, forse un sole con gli occhi o una casa con il tetto rosso. L’unico colore vivo in un mondo ormai grigio.
Mi sedetti su uno dei banchi. Scricchiolò sotto di me, ma resistette. Davanti, sul legno, c’era inciso un nome: Giorgia, 1996. Non so chi fosse, né dove sia ora, ma in quell’istante la immaginai, piccola, con lo zaino sulle spalle, le ginocchia sbucciate e gli occhi pieni di sogni. Forse sognava di cantare, di danzare su quel minuscolo palco. Forse ci è riuscita, forse no. Forse, come tutti, ha solo imparato a dimenticare.
Visitai anche le altre stanze, piccole e buie. Un tempo dovevano essere usate come spogliatoi o magazzini. Ora erano invase da muffa e silenzio. In uno di questi locali trovai un vecchio registratore a cassette, impolverato ma ancora integro. Lo sollevai, e sotto c’era un foglietto accartocciato, con una scritta tremolante: “Domani portiamo le maschere.”
Forse si preparava una recita. Forse il giorno dopo non ci fu più nessuno.
Il giardino, infine, era poco più di un cortile. L'erba alta, un’altalena arrugginita che si muoveva piano nel vento, e una fila di mattoni a terra, come per delimitare un’aiuola che non esisteva più. Ma non era vuoto: c'erano ancora tracce di passi. Passi recenti? Non lo so. Magari altri come me, attirati dalla malinconia, dalla bellezza fragile delle cose che finiscono.
Me ne andai al tramonto, con il cuore più pesante di quando ero arrivato. Guardai ancora una volta quella minuscola scuola, incastonata tra gli alberi e il nulla. Sembrava guardarmi anche lei, con occhi spenti e pieni di domande. Chi eravamo? Dove siamo finiti? Perché abbiamo lasciato che tutto finisse così?
Ma forse non c’erano risposte. Solo silenzio. Il silenzio delle voci perdute, dei passi cancellati, dei sogni che non hanno fatto in tempo a diventare ricordi.
E quel teatro, vuoto ma ancora in piedi, come l’ultima resistenza contro l’oblio, mi fece capire una cosa: a volte i luoghi non muoiono davvero. Restano lì, in attesa di qualcuno che li ascolti.
Io l’ho fatto. E non dimenticherò.
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