4 novembre 2024 * William De Biasi
Davanti a noi si erge una casa sontuosa, un tempo dimora di un medico chirurgo stimato e rispettato dalla comunità. Le pareti esterne, ora scrostate e ingrigite dal tempo, raccontano una storia di vita, di passione e dedizione verso il prossimo, ma oggi sono solo un'ombra di ciò che furono. Un'aura di malinconia avvolge l'intera proprietà, come se le mura stesse piangessero le memorie perdute di chi vi abitava, tuffandosi in un silenzio inquietante.
La dépendance adiacente, con le sue stanze vuote e desolate, sembra abbracciare il senso di abbandono che pervade l’intero luogo. Le finestre sporgono come occhi attoniti verso il mondo esterno, mentre i corridoi bui e privi di arredamento raccontano storie di vita quotidiana che si sono spente nel nulla. Salendo le scale che portano alla soffitta, la curiosità cresce nel mio cuore, mescolata a un’inquietudine palpabile. Cosa si nasconde lì sopra? Quali segreti sono stati sepolti sotto il peso dell'oblio?
Quando finalmente raggiungiamo la soffitta, il mio cuore si ferma per un momento. Davanti a me si presenta una scena surreale: una sala operatoria clandestina, insospettabile nella sua messa in scena macabra. L'aria è densa di un odore chimico, miscelato con la polvere del tempo che ha ricoperto ogni cosa. Un vaporizzatore ad ozono si erge sulla destra, la sua luce biancastra sembra pulsare oscuramente, quasi fosse un occhio vigile su questo luogo dimenticato. A sinistra, arnesi da sala operatoria giacciono disposti in modo ordinato, il loro luccichio metallico risulta quasi contrastante con l'atmosfera sinistra della stanza.
Nel centro della stanza, un lettino da visita, coperto da un lenzuolo ingiallito, emana una sensazione di inquietudine. È facile immaginare pazienti terrorizzate, donne in cerca di sollievo da sofferenze inenarrabili, che si sono presentate qui, non sapendo che la speranza di guarigione si sarebbe trasformata in un incubo. Strumenti da ginecologo e ostetrica, accatastati con cura, raccontano una storia diversa da quella che ci aspetteremmo. “Qui non c'era pietà, solo un desiderio di profitto e la disperazione di chi, in preda a condizioni precarie, era costretto a cercare risposte in questo luogo clandestino”
Le leggende che circolano da qualche giorno su questa sala operatoria clandestina ci offrono anche un’altra visione, un'alternativa, seppur pericolosa, per affrontare problemi di natura ginecologica e ostetrica. Potrei immaginare donne che, stravolte dalla paura di un sistema sanitario inadeguato, hanno deciso di affidarsi a queste pratiche rischiose nella speranza di trovare una via d’uscita. La cupidigia di un "medico pazzo" svela un lato oscuro della professione, un riflesso distorto di un'arte che, nella sua essenza, dovrebbe essere dedicata alla cura e al benessere.
La realtà di questa soffitta è agghiacciante. Con ogni passo che faccio, sento il peso della tristezza e della rassegnazione accumularsi nel mio cuore. Come può un luogo dedicato alla cura essere ridotto a tale oblio? Come ha potuto un uomo, che aveva giurato di proteggere la vita, cadere in questa spirale di degrado morale? La mia mente si riempie di domande, ma nessuna risposta si fa avanti, solo il fischio del vento che entra dalle fessure delle pareti abbandonate.
L'urbex, l'esplorazione urbana, è un mondo affascinante, un viaggio nelle pieghe del tempo che rivela realtà dimenticate. Ma qui, in questa soffitta, mi rendo conto di quanto possa diventare tragico. Il fascino di ciò che esploriamo è spesso accompagnato da un senso di colpa, un dovere morale di ricordare chi è stato dimenticato. Questo è un luogo di dolore e speranza infranta, un promemoria silenzioso delle vite che si sono intrecciate tra queste mura.
Sento il bisogno di sedermi su quel lettino, di chiudere gli occhi e ascoltare le storie che risuonano nel silenzio. Voci di donne che pregano per un futuro migliore, di famiglie che cercano conforto in mezzo alla tempesta. Sono presenti ancora, nei sussurri delle pareti e nel crepitio della polvere, intrappolate in un ciclo di sogni spezzati.
La malinconia mi travolge mentre osservo gli strumenti arrugginiti e la polvere che si posa su ogni superficie. In questo luogo, il tempo sembra essersi fermato, come se la soffitta volesse invitarmi a riflettere su ciò che è stato e su ciò che non potrà mai essere. Ogni pezzo di ferro, ogni attrezzo, porta con sé il peso di una vita, di una speranza, di un destino incatenato a un’illusione di salvezza.
Eppure, la verità è che nulla di tutto ciò potrebbe mai funzionare. Anche il più improvvisato dei "medici" avrebbe trovato impossibile operare in tali condizioni. L'illuminazione tenue, l'assenza di sterilità, l'atmosfera opprimente e la polvere creano un quadro surreale, dove la vita e la morte sembrano danzare insieme in una dolce melodia di tristezza. Un medico pazzo, forse, ma sono le condizioni del mondo che hanno spinto qualcuno a cercare di curare laddove non si poteva.
Mentre mi perdo in queste riflessioni, il cuore si stringe in una morsa di lacrime trattenute. Cosa resta di tutto questo? Solo macerie e ricordi sfocati di un’umanità che, nel suo disperato desiderio di affrontare il dolore, ha cercato risposte in luoghi sbagliati. Una lezione amara che si fa largo attraverso le crepe della mia consapevolezza.
Dopo aver esplorato ogni angolo di questa soffitta e aver assorbito la tristezza che permea l'aria, inizio a fare marcia indietro. Ogni passo verso la porta è una consapevolezza crescente che lasciamo dietro di noi qualcosa di prezioso, una storia che merita di essere raccontata. Il sole al tramonto risplende attraverso le finestre polverose, regalando un ultimo sguardo a questa realtà dimenticata, come se volesse dare un addio a ciò che è stato.
Mentre scendiamo le scale, il cuore è colmo di emozioni contrastanti. Da un lato, la bellezza inquietante di un luogo che racconta storie di vita e morte; dall'altro, la tristezza di un'umanità che ha cercato risposte in un buio profondo, dimenticata dal mondo. Ci allontaniamo, portando con noi il peso di una memoria che non può e non deve essere dimenticata, perché in fondo, ognuno merita una storia che valga la pena di essere raccontata.
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