15 dicembre 2024 * William De Biasi
Era una mattina grigia e nuvolosa quando ci siamo avventurati ai margini del paese, verso quella casa di campagna che ormai ricopriva un velo di polvere e tristezza. Era tagliata fuori dal passaggio a livello e dalla ferrovia, come se il mondo avesse deciso di ignorarla, abbandonandola a un destino atroce. Gli alberi che circondavano la casa avevano assunto forme contorte, e il vento pareva lamentarsi tra i rami, portando con sé i sussurri di storie dimenticate.
La sala da pranzo, così simile a una scena di un dramma teatrale, presentava un televisore muto in un angolo, testimone di momenti di convivialità che ora giacevano in un silenzio assordante. Sul tavolo, una scatola di cioccolatini ormai vuota sembrava quasi cercare giustificazione, una coccola persa nel vuoto. Aveva probabilmente vissuto un giorno di festa, un compleanno o una ricorrenza, quando il dolore era lontano e la vita pulsava. Adesso, però, quel momento era solo una traccia nel tempo, una frattura che nessuno poteva aggiustare.
La cucina, un vero guazzabuglio di oggetti, era un riflesso del caos interiore degli abitanti. Piatti rotti e utensili sporchi erano sparsi ovunque, e un forte odore di muffa permeava l’aria. Le cose più semplici, come preparare un pasto caldo, erano diventate impossibili in un luogo che un tempo profumava di casa. Ogni angolo sembrava nascondere storie di frustrazione e di solitudine, facendo eco a un’umanità schiacciata dalla malattia e dalla paura.
Il salotto, con le ante chiuse che lasciavano filtrare una luce inadeguata, raccontava un altro capitolo di questa esistenza segnata dal dolore. Le immagini sacre appese al muro, diverse da quelle della sala, osservavano tutto con uno sguardo di pietà. Erano custodi di un dramma che si svolgeva in silenzio. Chi viveva qui? Quali risate avevano riempito questi spazi? E ora, dove erano finiti?
Salendo le scale, notai un piccolo topolino, sicuramente aveva conosciuto tempi migliori, sembrava quasi una macchia scura sul rosso acceso, se pur consunto del pavimento. La sua presenza, pur così insignificante, portava un senso di tristezza in un luogo così desolato. Quando raggiungemmo il piano superiore, ci trovammo davanti a un paradiso dimenticato dai bambini: migliaia di giochi, migliaia di peluches, giacevano inermi sul pavimento, sparsi un po' dovunque. Erano le testimonianze di un'infanzia felice, ma ora apparivano tristi e abbandonati, alcuni erano posizionati sul letto, i loro occhi spalancati ci spiavano con una dolcezza inquietante.
Sorrisi di stoffa e colori brillanti contrastavano fortemente con il buio che circondava quella casa, quasi a voler ricordarci che la felicità era un momento fugace, un battito d’ali che avevamo dimenticato. Ciò che restava di quell’abitazione erano i segni di un amore materno, di un abbraccio caloroso, di notti trascorse a leggere storie inventate. Ma ora, nel silenzio opprimente, sembravano solo marionette in un dramma senza attori, esseri innocenti imprigionati tra le pareti della loro stessa casa.
Con sommo silenzio, raccogliemmo i nostri pensieri e ci dirigemmo verso l’uscita, il cuore pesante come un macigno. Ogni passo era un addio, una rinuncia a ciò che avremmo potuto conoscere. E in quel momento, con la luce che lentamente filtrava, una sola domanda si affacciava sulle nostre menti: dove sono davvero scappati i proprietari?
La risposta si mescolava tra le ombre della casa dimenticata, dove passato e presente si intrecciavano, creando un quadro di malinconica bellezza e disperata rassegnazione. Il tempo aveva chiuso i battenti su una vita abbandonata, e noi eravamo gli estranei che avevano osato varcare la soglia di un dolore incompreso.
Uscimmo, lasciando dietro di noi quella casa carica di memorie, ma portando con noi il peso di una storia che non avremmo mai potuto dimenticare. Mentre ci allontanavamo, sentii che, in qualche modo, i peluche ci stavano ancora osservando, come custodi silenziosi di un segreto che nessuno avrebbe mai rivelato.
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